Le politiche ambientali da quasi vent’anni mettono al centro la prevenzione nella produzione dei rifiuti, ma finora i risultati sono stati trascurabili. Nonostante gli sforzi, infatti, la generazione di rifiuti nei Paesi UE27 è rimasta per lo più stabile, anche con crescite significative in alcuni anni.
I fattori che concorrono a determinare tale risultato sono estremamente variegati. Tra questi vi è anche un mutamento dei modelli tradizionali di consumo che, ad esempio, ha portato ad una crescente richiesta di packaging monodose. I nuclei familiari costituiti da un solo componente, infatti, sono in continuo aumento, mentre scendono sia il numero delle famiglie numerose, che quello dei nuclei con almeno tre membri. Può essere quindi più significativo considerare invece la produzione pro-capite.
I rifiuti urbani sono saliti da 480 kg/abitante nel 2013 a 513 kg/abitante nel 2022, valori che per l’Italia si attestano rispettivamente a 486 kg/abitante e 493,6 kg/abitante (Figura 1).
Figure. 1 – Produzione pro capite di rifiuti urbani, 2013-2022, UE27 e Italia
Elaborazione Althesys su dati Eurostat e Ispra
Non si è quindi avuto l’auspicato disaccoppiamento tra la produzione di rifiuti e andamento dell’economia, come evidenziato dalla Figura 2 seguente. Cosa deve e può cambiare?
Figura 2 – Indici Produzione rifiuti urbani, Popolazione e PIL Italia, 2014-2022
Elaborazione Althesys su dati Eurostat e Ispra
La normativa comunitaria ha cercato di favorire la prevenzione fissandola al primo posto nella gerarchia dei rifiuti, alla base di tutte le disposizioni normative e decisionali dell’UE, e richiedendo agli Stati membri di redigere e adottare periodicamente specifici programmi di prevenzione (Direttiva 2008/98/EC). La prevenzione, secondo la definizione della Commissione Europea, distingue fra tre possibili tipologie: quantitativa, che mira a ridurre la quantità di rifiuti generati, qualitativa legata agli impatti negativi che alcune categorie di rifiuti prodotti hanno sull’ambiente e la salute umana e, infine, quella qualitativa connessa al contenuto di sostanze tossiche in materiali e beni.
Le possibili modalità di intervento sono quindi diverse e includono una migliore progettazione (ecodesign) da parte dei produttori, la promozione di attività di riparazione o di riuso da parte dei policy maker, l’introduzione del divieto di distruggere i beni invenduti (come accade già oggi in Francia per i prodotti tessili, i dispositivi elettronici e i libri), prevedendo che siano riutilizzati o donati, informare i cittadini circa comportamenti e acquisti più sostenibili, eliminare i prodotti usa e getta, favorire lo sfuso rispetto all’imballaggio, vietare l’impiego dei PFAS, etc. La stessa modulazione del contributo ambientale da parte dei sistemi di gestione per diversi flussi di rifiuti mira a favorire l’adozione di una o più di tali azioni.
I programmi di prevenzione, nonostante abbiano portato ad alcune interessanti policy nazionali, non sono riusciti ad essere efficaci per invertire l’andamento nella produzione di rifiuti. Ad influire significativamente sono la mancanza di sistemi di monitoraggio delle misure e la quantificazione dei risultati conseguiti, data la difficoltà di trovare una correlazione tra la produzione di rifiuti e gli impatti delle misure attuate.
La situazione in Italia non è confortante. Ad esempio, le pratiche e gli strumenti di Green Public Procurement (GPP),che indirizzano gli enti pubblici verso investimenti a basso impatto ambientale, stentano a decollare. A livello nazionale, gli acquisti verdi della Pubblica Amministrazione sono regolati da specifiche tecniche contenute nei Criteri Ambientali Minimi (CAM), la cui adozione è obbligatoria dal 2016, e sono stati anche prerequisito essenziale per concorrere ai bandi del PNRR. Nella nuova Strategia Nazionale per l’Economia Circolare, il MASE afferma che i CAM e il GPP sono tra gli “strumenti principali per lo sviluppo di vere e proprie filiere circolari e per lo stimolo del mercato dei materiali riciclati”, evidenziando che i settori strategici su cui intervenire sono quelli di infrastrutture, edilizia, tessile, plastica e RAEE.
All’obbligo non sono però corrisposti strumenti e procedure adeguate. Basti pensare che nel 2022, su una spesa pubblica complessiva di 233 miliardi di euro, considerando solo le spese per beni e servizi imputabili a contratti superiori a 40.000 euro, solo 86 miliardi si collocano in ambito GPP (fonte Legambiente-Fondazione Ecosistemi). Tra le principali criticità vi sono soprattutto le difficoltà nella stesura dei bandi, la mancanza di un’offerta adeguata e la poca formazione del personale.
Prevenire la produzione di rifiuti richiede la necessità di cambiare abitudini e paradigmi tradizionali, con il coinvolgimento tanto dei cittadini che delle autorità locali. I primi devono essere adeguatamente informati sulle possibilità oggi disponibili di prevenire i rifiuti. Misure quali, ad esempio, favorire lo sfuso rispetto all’imballaggio, benché negli anni abbiano visto un certo coinvolgimento in alcune aree, hanno impatti limitati e spesso non sono capaci di garantire la sicurezza e l’igiene dei prodotti. Per quanto riguarda le autorità locali, dall’indagine sulle misure di prevenzione della produzione dei rifiuti urbani adottate dai Comuni, condotta dall’Ispra nel 2022, non traspare un quadro particolarmente positivo.
Innanzitutto, emerge la mancanza generale di una pianificazione sul territorio. Tra i Comuni che hanno partecipato all’indagine (1.754 per 17,6 milioni di abitanti), infatti, solo 325, rappresentativi del 13% della popolazione italiana (circa 8 milioni di abitanti) hanno affermato di aver adottato programmi e/o linee guida per ridurre la generazione di rifiuti urbani. Nel complesso, la maggior parte delle misure riguarda “la promozione dell’approvvigionamento di acqua potabile su superfici pubbliche, l’uso di stoviglie biodegradabili o lavabili in manifestazioni di tipo temporaneo e l’applicazione del protocollo informatico agli uffici pubblici”.
Nonostante il Programma nazionale indichi come necessario aumentare la quota che le Regioni devono destinare a favorire misure di prevenzione dei rifiuti, appena 120 Comuni (7% dei rispondenti) dichiarano di aver ricevuto questi incentivi regionali nell’ultimo triennio. In particolare, nei 12 mesi precedenti al questionario, sono stati assegnati 3,35 milioni di euro totali ad 80 Comuni.
Ancora ridotta è poi la diffusione di centri dedicati al riuso, alla riparazione e allo scambio, così come poche sono le collaborazioni con le imprese della GDO per ridurre imballaggi e sprechi alimentari.
Sulla prevenzione punta anche il controverso Regolamento Imballaggi, che, oltre a vietare alcuni imballaggi monouso e sostanze chimiche tossiche, fissa obiettivi di prevenzione per i rifiuti di imballaggio, pari al 5% entro il 2030 rispetto al 2018, al 10% entro il 2035 e al 15% entro il 2040. Una misura che diversi studi annoverano tra le più efficaci e che attualmente è presente in alcune aree degli UE27, tra cui la Catalogna e le Fiandre, e a livello nazionale solo in Francia, dove, a partire dal 2022, la “Legge anti-spreco” ha fissato il target di ridurre la produzione di rifiuti urbani del 15% e quella di rifiuti commerciali del 5% entro il 2030.
La strada appare comunque in salita, necessitando di una programmazione adeguata, di coinvolgere stakeholder estremamente diversi tra loro, ma soprattutto di un profondo mutamento delle abitudini delle persone e di un ripensamento dei paradigmi tradizionali di produzione-consumo. Tutti fattori che sino ad oggi in Italia sono stati messi in secondo piano a favore di norme command and control tradizionali, di sicuro impatto sul sistema economico ma talvolta di incerto risultato ambientale.