L’introduzione di una tassa europea sulla plastica, che si aggiunge a quella italiana prevista dalla Legge di Bilancio 2020, riporta alla ribalta il tema della fiscalità come strumento di politica ambientale.
Il ricorso a strumenti economici per fini ambientali non è certamente nuovo. La teoria economica da molto tempo li propone per fronteggiare le “esternalità negative”, cioè gli effetti indesiderati delle attività economiche sull’ambiente e sulla comunità. Questi meccanismi comportano, tuttavia una serie di difficoltà e complessità, tanto nel loro disegno che nell’applicazione. Molto aperto è anche il dibattito circa la loro reale efficacia.
Negli ultimi anni, soprattutto in Europa, gli strumenti economici e la tassazione ambientale stanno avendo una diffusione crescente in diversi settori.
La plastica, sempre più al centro dell’attenzione dei policy maker, è diventata uno dei settori sui quali maggiormente si stanno sperimentando misure di questo genere.
L’evidenza degli impatti di un’inadeguata gestione dei rifiuti plastici e i suoi grandi volumi ne fanno un target ideale. La produzione di plastiche a livello globale ha infatti raggiunto 359 milioni di tonnellate nel 2018, in aumento del 3% sull’anno precedente e più che triplicata rispetto al 1990. Il 17%, pari a 64,4 milioni, è dovuto alla sola Europa, che ne raccoglie circa 25,8 milioni sotto forma di rifiuti, inviati a riciclo per meno del 30% (fonti: PlasticsEurope e Rethink Plastic Alliance).
In questo contesto, diversi Stati UE hanno introdotto tassazioni sui sacchetti in plastica, sugli imballaggi non riutilizzabili, sul conferimento in discarica di beni riciclabili, etc., mentre l’Italia vede oggi la possibilità (il rischio?) di una doppia imposta sulla plastica: una nazionale e l’altra europea.
La prima, denominata “tassa sui manufatti di singolo impiego (MACSI)”, è prevista dalla Legge di Bilancio 2020 (commi 634-658 della Legge 27 dicembre 2019, n. 160) e mira a prevenire e contrastare gli impatti di alcune categorie di prodotti in plastica, recependo così la Direttiva 2019/904/UE. L’imposta, che sarà applicata a partire dal primo gennaio 2021, comporta il pagamento di 45 c€/kg immessi a consumo sul territorio nazionale e riguarderà tutti i prodotti monouso (ad esempio: posate, cannucce, bottiglie di plastica, imballaggi per alimenti, tetrapak, etc.). Fanno eccezione medicinali, plastiche da riciclo e quelle compostabili secondo la norma UNI EN 13432:2002.
La tassa europea sarà introdotta dal primo gennaio 2021 per finanziare il Recovery Fund e, diversamente dalla precedente, sarà versata annualmente da ciascuno Stato membro in base ai quantitativi di imballaggi in materie plastiche che non sono stati riciclati. L’ammontare in questo caso sarà di circa 80 c€/kg, quasi il quadruplo dell’attuale costo di smaltimento. Considerando i soli rifiuti di imballaggi in plastica ed ipotizzando che “non recuperati” includa anche i quantitativi inviati a recupero energetico, si avrebbe una pesantissima “bolletta” aggiuntiva per l’Italia intorno ai 400 milioni di euro. Praticamente tre volte i ricavi generati dalla vendita di plastiche riciclate. I termini, tuttavia, sono ancora poco definiti e i dettagli dovranno essere forniti dalla Commissione. Tra le molteplici domande: come sarà considerato il recupero energetico? Quanto e come gli Stati ribalteranno la tassa sulle imprese e sui consumatori?
La tassazione ambientale potrebbe essere, dunque, lo strumento adatto per affrontare il problema dei rifiuti di plastica? Come dovrebbe essere disegnata per essere efficace tanto sul piano ambientale che su quello economico? Quali effetti potrà avere sul settore del waste management e del riciclo? Quali impatti sui mercati delle materie prime seconde?
1La norma indica prodotti “che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari; i MACSI, anche in forma di fogli, pellicole o strisce, sono realizzati con l’impiego, anche parziale, di materie plastiche costituite da polimeri organici di origine sintetica e non sono ideati, progettati o immessi sul mercato per compiere più trasferimenti durante il loro ciclo di vita o per essere riutilizzati per lo stesso scopo per il quale sono stati ideati”.
Un’imposta efficace dovrebbe, in linea teorica, soddisfare due requisiti essenziali: a) migliorare il comportamento dei vari attori responsabili degli impatti ambientali e b) non incidere in modo improprio sugli equilibri di mercato e sulla competizione, favorendo alcuni soggetti a discapito di altri.
Riguardo al primo, va considerato che una plastic tax può essere applicata a monte oppure a valle della catena produzione-consumo in base ai comportamenti che si vogliono (dis)incentivare, avendo ben presenti i possibili trade-off. L’introduzione di una imposizione sui produttori, ad esempio, pur essendo più semplice da amministrare, potrebbe non favorire un miglior comportamento dei consumatori, mentre una direttamente sui consumatori potrebbe non incentivare le aziende produttrici ad innovare, investendo in ricerca e sviluppo.
Per il secondo requisito, occorre avere ben chiaro lo specifico quadro in cui l’imposta si andrà a collocare e i possibili impatti. La plastic tax italiana è stata accolta con molta preoccupazione dall’industria, sia quella produttrice dei beni in plastica, sia quella degli utilizzatori, in primis il settore delle bevande, peraltro già colpito dalla sugar tax. Per quest’ultimo, Assobibe stima un incremento del 50% dei costi di approvvigionamento delle materie plastiche. La sua introduzione potrebbe quindi comportare un aumento dei costi sia per consumatori ed aziende, in una fase congiunturale già molto critica a causa della crisi pandemica. Se una tassa europea non dovrebbe porre problemi di concorrenza (per lo meno all’interno dell’Unione), quella italiana potrebbe avere effetti negativi per il nostro Paese distorcendo la competizione con altre nazioni UE. Il fatto stesso che sia stata rinviata al nuovo anno per i possibili impatti negativi sull’economia induce a riflettere e a chiedersi se sia ora compatibile con l’attuale pesante situazione di crisi.
In questo quadro, le esperienze passate possono insegnare qualcosa?
Alcune nazioni, ad esempio, applicano imposte ambientali nel settore già da diversi anni. Il Belgio ha introdotto una tassazione sui contenitori per bevande immessi a consumo (Packaging Charge) nel lontano 1993 con il doppio proposito di migliorarne il riuso e il riciclo. Le revisioni successive hanno elevato i valori per gli imballaggi non riutilizzabili, arrivando ad avere dal 2014 un’imposta di 9,86 €/ettolitro per gli imballaggi non riutilizzabili e una di 1,81 €/ettolitro per quelli riusabili. La valutazione degli effetti dell’imposta mostra tuttavia risultati contrastanti (fonte: Eunomia 2016-2017). Se da un lato, tra 1993 e 2006, si è individuato un decoupling degli imballaggi in plastica monouso dal GDP, dall’altro, non si è riusciti a determinare l’esistenza di effettivi miglioramenti nel riutilizzo. Si è spesso ritenuto, infatti, che il basso livello di tassazione non sia stato sufficiente per favorire un miglior comportamento da parte dei consumatori.
Un’idea degli effetti generati dagli strumenti economici per fini ambientali in Italia può darla anche una semplice analisi del CAC per la plastica. L’andamento dell’onere sostenuto negli anni per l’avvio al riciclo di questi imballaggi ha favorito il decoupling tra GDP e consumi e di conseguenza la produzione di minori quantitativi di rifiuti? La comparazione tra l’andamento del CAC unitario lungo un decennio, quello del PIL e l’immesso a consumo di plastica sembra dire di no.
La Figura 1 riporta l’andamento del CAC tra 2009 e 2019, i dati di variazione del PIL in termini reali e quelli relativi alla plastica immessa a consumo tra 2010 e 2019.
Le caselle in rosso indicano gli anni per i quali il decoupling tra PIL e immesso a consumo di plastica non è stato raggiunto, in giallo sono quelli per cui il tasso di crescita dei quantitativi immessi è inferiore al PIL (disaccoppiamento relativo) e in verde gli anni per cui si ha decoupling assoluto, ossia crescita economica e contemporanea diminuzione dei consumi di plastica. Nel complesso, non pare quindi emergere un chiaro disaccoppiamento tra crescita economica ed immesso a consumo, con il decoupling vero e proprio raggiunto solo due volte nel periodo. Peraltro, il CAC in sé non promuoveva il riciclo, dato che solo recentemente l’importo per la plastica è stato differenziato secondo la riciclabilità del materiale.
Diversa pare poi l’efficacia di questi strumenti se lo scopo è ridurre i consumi di un determinato bene piuttosto che spostarli tra alternative. I certificati di emissione della CO2 (ETS), ad esempio, sono efficaci nel ridurre l’uso del carbone a favore del gas. Non diminuiscono però i consumi elettrici nel loro complesso e funzionano solo con valori elevati che incidono realmente sulla convenienza relativa dei due combustibili.
Nel caso della plastica, una tassa ridurrà veramente i consumi? E porterà effettivamente benefici per l’ambiente? Lo strumento potrà essere efficace solo se ben disegnato ed accoppiato ad altre misure. Dovrà, ad esempio, favorire la transizione verso le plastiche da materie prime rinnovabili e riciclate. Sarà quindi necessario evitare un’applicazione “a tappeto”, distinguendo adeguatamente tra prodotti e materiali.
Allo stesso tempo, l’imposta dovrà essere dimensionata alla luce dei prezzi delle materie prime vergini e in modo da sostenere il mercato dei recovered material. Nel caso della plastic tax italiana, ad esempio, il valore previsto è di 450 €/ton in una filiera in cui il valore della plastica vergine si aggira mediamente in un range compreso tra gli 800 e i 1.300 €/ton secondo i diversi polimeri, mentre quello dei recovered material tra i 300 e i 600. La tassazione, ceteris paribus, potrebbe quindi riequilibrare (almeno in parte e secondo la congiuntura) il differenziale di prezzo tra le due tipologie di materiali.
La sua applicazione dovrà tener conto dei flussi di import-export ed evitare fenomeni di free-riding.
Infine, ma non certo per importanza, è fondamentale che il gettito sia destinato a fini coerenti con l’obiettivo dichiarato: misure a sostegno del riciclo e di una corretta gestione dei rifiuti, con finanziamenti per la realizzazione di impianti, incentivi per l’uso di materiali riciclati o per lo sviluppo di un facile riutilizzo. Quote obbligatorie di materiali riciclati in alcune categorie di prodotti e sostegni all’innovazione dovrebbero completare il quadro.
In conclusione, una tassazione ambientale potrà essere applicata con successo solo se il saldo netto costi-benefici per il sistema Paese sarà positivo. Si badi bene, il bilancio dovrà essere positivo non in termini di gettito fiscale (che è solo una parte della valutazione), ma per l’intero sistema nazionale, unendo profili ambientali, economici e industriali e sociali. Diversamente, sarà solo un altro onere economico e burocratico senza reali benefici per l’ambiente e per il nostro Paese.