La simbiosi industriale per aumentare la circolarità

Lo sviluppo dell’economia circolare, che è da tempo al centro delle politiche ambientali, sta avendo un’ulteriore accelerazione grazie al concetto di “simbiosi industriale”. Questo indica un sistema in cui i rifiuti di un’azienda o di un’attività industriale diventano input per un’altra azienda o per un altro processo produttivo, creando rapporti di interdipendenza in cui le risorse circolano continuamente senza che siano generati scarti, analogamente a quanto avviene negli ecosistemi naturali. I possibili benefici ambientali (p.e. più efficiente impiego di risorse, riduzione della discarica), economici (p.e. riduzione dei costi di waste management) e sociali (p.e. benessere, qualità dell’ambiente) sono molteplici e, negli anni, hanno attirato l’attenzione di diversi governi e operatori e portato a interventi normativi volti a favorirne lo sviluppo.

A livello comunitario, il Pacchetto sull’economia circolare del 2018 ha raccolto le precedenti disposizioni sul tema e, come il successivo Green New Deal, ha sottolineato il ruolo della simbiosi industriale nel favorire nuovi modelli di produzione in cui le risorse sono impiegate più efficientemente.

Ad oggi, si può osservare una forte diffusione di tale modello soprattutto nel Nord Europa. Nell’isola svedese di Händelö, ad esempio, coesistono una serie di attività ed impianti interconnessi tra loro: termovalorizzazione, produzione di bioetanolo, di mangimi, trasformazione di anidride carbonica, biogas. I rifiuti urbani raccolti sono conferiti al termovalorizzatore per produrre elettricità e teleriscaldamento, mentre il vapore in eccesso è inviato a un impianto che produce bioetanolo. La parte di RU che non diventa biocarburante è usata come mangime per animali, mentre l’anidride carbonica prodotta durante la produzione è conferita a una fabbrica che la trasforma in acido carbonico e la rivende all’industria alimentare. Gli scarti dell’impianto di bioetanolo, inoltre, sono inviati al vicino impianto di produzione di biogas destinato all’industria automobilistica oppure usati come concime per i campi in agricoltura.

In generale, la simbiosi industriale può essere implementata secondo tre modelli fondamentali.

  • i distretti industriali, in cui lo sviluppo avviene tipicamente secondo un approccio “bottom up”, ossia con l’instaurazione di un sistema di relazioni imprenditoriali e in base ad accordi spontanei per lo scambio di materiali, energia o servizi in determinati ambiti territoriali. Un esempio è la città di Kalundborg in Danimarca, dove a partire dagli anni ’60 si è sviluppato, per volontà di aziende che volevano ottenere benefici economici, un sistema in cui diverse realtà industriali si scambiano oggi tra loro acqua, energia, vapore, rifiuti, personale e know-how.  
  • i parchi eco-industriali sono invece fondati su un approccio “top-down”, poiché programmati, progettati e gestiti a partire da apposite normative. Il modello è diffuso soprattutto in Canada, Stati Uniti e in Asia. In particolare, la Cina sta puntando sulla realizzazione di tali parchi sia per promuovere l’economia circolare, sia per far fronte alla carenza di materie prime per l’industria a seguito delle restrizioni alle importazioni che sono state introdotte dal governo cinese dal 2018.
  • le reti per la simbiosi industriale, in cui è favorito l’incontro tra domanda e offerta di risorse e interlocutori differenti, che non avrebbero altrimenti (o molto difficilmente) occasione di incontro. Un esempio è il Network Italiano di Simbiosi Industriale (Symbiosis Users Network, SUN), promosso da ENEA e formato da circa 39 partner tra università, istituzioni pubbliche, enti di ricerca e società private, che si propone come riferimento per le aziende intenzionate ad applicare la simbiosi industriale sul territorio nazionale.

Nel caso italiano, secondo un modello similare a quello degli eco-parchi, l’art. 26 del D.Lgs. 112/1998 ha introdotto le cosiddette “Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate” (APEA), definite come zone industriali “dotate delle infrastrutture e dei sistemi necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente”. In tali aree, deve essere presente una gestione unitaria, con l’obiettivo di gestire in modo integrato i servizi ambientali legati alle attività industriali e di semplificare gli adempimenti amministrativi per la gestione degli aspetti ambientali.

La normativa assegna alle regioni il compito di disciplinare tali sistemi, fissando alcuni punti fondamentali relativamente a spazi e impianti collettivi, modalità gestionali, semplificazioni e incentivi. La situazione è piuttosto diversificata, con almeno dieci regioni (Abruzzo, Calabria, Emilia-Romagna, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Sardegna e Lazio) che hanno già legiferato in materia di APEA, mentre in altre la normativa è in gestazione oppure ancora assente.

In Toscana, ad esempio, l’APEA di Ponte a Egola (PI) è stata creata nel 2016, all’interno del distretto toscano della pelle, e dispone di diversi servizi centralizzati che interessano: l’energy management, i gruppi di acquisto per beni e servizi comuni, la gestione dei rifiuti effettuata in ottica di simbiosi industriale, la depurazione, etc.

Nel complesso, le simbiosi sviluppate in Italia sono spesso situate nei vecchi distretti industriali e coinvolgono per lo più piccole e medie imprese. Ne derivano catene del valore piuttosto brevi e localizzate in un territorio specifico, minori emissioni dovute ai trasporti e una maggiore flessibilità dei processi.

Nell’area di Brescia, ad esempio, Confindustria e Conou hanno creato una rete di raccolta e recupero degli oli minerali usati, favorita dal fatto che l’82% della produzione di olio usato delle industrie si deve qui a sole 49 aziende. Grazie a tale sistema ogni anno sono recuperate circa 5.000 tonnellate di oli, le aziende produttrici possono contare su un meccanismo di conferimento veloce ed economicamente conveniente e gli operatori del trattamento riescono ad ottenere economie di scala tali da ridurre sensibilmente i costi di trasporto e stoccaggio.

Un altro caso è in Toscana il distretto tessile di Prato che conta oltre 7.000 aziende produttrici di tessuti per abbigliamento, arredamento, impieghi industriali, etc. Il sistema di simbiosi implementato consente il trattamento annuo di oltre 180.000 tonnellate di rifiuti tessili e più di 50.000 tonnellate di scarti di lavorazione. Valori che potrebbero vedere un ulteriore miglioramento nei prossimi anni, con l’entrata in funzione del Textile Hub ammesso a finanziamento PNRR.  

Lo sviluppo di simbiosi industriali può portare a benefici significativi per le aziende coinvolte, anche in termini di riduzione di rifiuti prodotti. Sul territorio nazionale poi il procedimento può essere facilitato dalla presenza di numerosi distretti industriali (141, secondo l’Istat), tuttavia, rimangono diverse barriere. Tra queste, secondo un censimento condotto nel 2021, vi sono la presenza di lacune normative circa la gestione dei rifiuti speciali, la mancanza di meccanismi capaci di creare network che mettano in contatto le imprese e di conoscenze tecniche necessarie per implementare la simbiosi industriale.